Espressioni astrattamente diffamatorie ma non contestualizzate, né precisamente riferibili ad un determinato soggetto non danno luogo a risarcimento del danno
Il Giudice di Pace di Udine è stato investito della domanda di condanna al risarcimento del danno per il reato di diffamazione a mezzo facebook per avere il convenuto, che aveva intrattenuto un colloquio di lavoro con l’attore, pubblicato sulla propria pagina FB il seguente messaggio: “ma come si fa entrare in un ufficio apparentemente serio e trovare su di una lavagna il disegno di una minchia. Tra l’altro un ufficio di sole donne. Forse un messaggio ad una testa di cazzo che sodomizza tutti e tutto (il loro capo)”.
La difesa chiedeva il rigetto della domanda poiché il testo pubblicato non conteneva il minimo riferimento a circostanze di tempo o di luogo, né tanto meno a persone che potessero ricondurre all’attore, così difettando gli elementi della fattispecie di reato, prevista e punita dall’art. 595 c.p (diffamazione).
Senza nemmeno dare ingresso alla fase istruttoria, il Giudice di Pace di Udine, richiamando la giurisprudenza di legittimità sul punto, ha affermato che il reato di diffamazione è configurabile in presenza di un’offesa alla reputazione di una persona determinata e, per l’effetto, non può ritenersi sussistente nel caso in cui vengano pronunciate o scritte espressioni offensive riferite a soggetti non individuati né individuabili (Cass. 48058/2019).
Inoltre, in ipotesi di riferimento a persone innominate, come nel caso di specie, la valutazione della determinabilità soggettiva, intesa come inequivoca riferibilità ex ante ad un determinato soggetto, non può risolversi con riferimento alla considerazione soggettiva di taluno che si riconosca come destinatario di quella divulgazione. I parametri di individuazione debbono piuttosto avere natura oggettiva, rimanendo esclusa la possibilità di ricorrere ad intuizioni o personali congetture di soggetti che ritengano di poter essere destinatari dell’offesa (Cass. 10.03.2021 n.15472).
Il Giudice di Pace ha quindi rigettato la domanda attorea, condannando il soccombente al pagamento delle spese di lite.